Era situata su un’isola che dista sei stadi dalla Sicilia ed era abbellita artisticamente in sommo grado con numerose belle case, grazie alla prosperità degli abitanti.
È con queste parole che Diodoro Siculo descrive l’affascinante ricchezza dell’isola di Mozia, una piccola porzione di terra circondata dal mare nello stagnone di Marsala in provincia di Trapani, un luogo unico in cui si avverte il forte senso di centralità del mondo antico.
Mozia – o anche Mothia, Motya – fu un’antica città fenicia, sita sull’isola di San Pantaleo, di fronte alla costa occidentale della Sicilia, tra l’Isola Grande e la terraferma, oggi proprietà della Fondazione Whitaker, la stessa fondazione che ha sede nel bellissimo palazzo di Villa Malfitano nel cuore di Palermo.
Questo angolo di terra è attraente quanto misterioso, immerso in uno scenario naturale senza eguali, uno spazio in cui ci si perde circondati dalla bellezza della natura e dalla solennità delle testimonianze di vita passate, uno spiraglio di mistica delicatezza che assume i colori variopinti delle albe e dei tramonti sulle calme e salate acque che circondano l’isola, 45 ettari che restituiscono ogni giorno una massa di reperti e opere della cultura fenicia d’Oriente integrata pacificamente nella società occidentale, testimoniando la natura cosmopolita delle nostre origini mediterranee.
Foto aerea dell’isola di Mozia Trapani “copyright Missione archeologica a Mozia, Sapienza Università di Roma” ed immagine dell’imbarcadero storico per raggiungere l’isola Mozia.
Interessata dalle esplorazioni dei mercanti-navigatori fenici nel Mediterraneo già a partire dalla fine del XII secolo a.C., Mozia dovette rappresentare un punto d’approdo ed una base commerciale morfologicamente molto simile alla città fenicia di Tiro nella costa levantina. L’antico nome fenicio, come risulta dalle legende monetali, vuole infatti significare proprio “approdo”.
Intorno alla metà dell’VIII secolo a.C., con l’inizio della colonizzazione greca in Sicilia, Tucidide ricorda che i Fenici si ritirarono nella parte occidentale dell’isola, più esattamente nelle tre città di loro fondazione: Mozia, Solunto e Palermo. Le testimonianze archeologiche moziesi parlano di un insediamento non anteriore alla seconda metà dell’VIII secolo a.C. documentato presso la “Porta Sud”, preceduto da una fase protostorica legata alla cultura autoctona vicina a quella Elima.
Le mura fortificate che circondavano l’intera isola possono essere invece collegate alle spedizioni greche in Sicilia occidentale di Pentatlo e Dorieo, dunque attribuibile al VI secolo a.C. Nel 397 a.C. la città fu al centro delle mire espansionistiche di Dionisio di Siracusa che la presa e la distrusse all’inizio della sua campagna di espansione. L’anno successivo fu riconquistata dai Cartaginesi, ma perse d’importanza a causa della fondazione di Lilibeo.
Bastioni di Porta Nord e mura di fortificazione sull’isola Mozia Sicilia “copyright Missione archeologica a Mozia, Sapienza Università di Roma”
Dopo l’inizio dei primi scavi archeologici nella seconda metà del 1700, sarà solo agli inizi del 1900 grazie al proprietario di Mozia Joseph Whitaker, archeologo ed erede di una famiglia inglese arricchitasi in Sicilia con la produzione del marsala, ad avere una florida ricerca sull’isola.
Si misero in luce il santuario fenicio-punico del Cappiddazzu, parte della necropoli arcaica, la cosiddetta Casa dei Mosaici, l’area del Tofet, le zone di Porta Nord, Porta Sud e della Casermetta; Whitaker si occupò inoltre della sistemazione degli scavi e della creazione del locale museo.
Si susseguirono campagne di scavo di stampo nazionale ed internazionale, fino a giungere alle intense indagini condotte dall’Università “Sapienza” di Roma ancora attiva sull’isola, che hanno riportato alla luce, sotto la direzione del Prof. Lorenzo Nigro, il complesso templare nell’area della piscina sacra del Kothon dedicato a Ba’al Addir, in cui risplende il grande temenos circolare che racchiude – oltre al tempio – altre aree sacre dedicate anche a divinità femminili quali Astarte. Sono state scoperte inoltre due grandi residenze nella zona dell’acropoli, che ha restituito il bellissimo “Corno di Tritone”, e la zona di “Porta Ovest” con l’annessa Fortezza e il Sacello Sacro di Astarte.
L’area del Tempio del Kothon con il grande Temenos Circolare “copyright Missione archeologica a Mozia Sicilia, Sapienza Università di Roma”
Resta unica la sensazione di affondare le mani in quella gialla terra sabbiosa, un insieme di strati adagiati dalla natura a ricoprire come un manto delle ricchezze senza tempo, opere dalla manifattura sopraffina, testimonianze di un glorioso passato che ha il sapore e i profumi dell’Oriente.
Scavo archeologico
Nelle magiche notti di luna piena, in cui il cielo si riempie di stelle fino a rispecchiarsi negli allineamenti delle strutture sacre a terra, si ha la sensazione di poter prendere le calende con le mani. Basta restare fermi ad ascoltare in silenzio per avere la percezione di udire le musiche delle antiche cerimonie sacre fatte nei giorni di plenilunio, in cui sacerdoti e sacerdotesse, danzando al suono di lire, flauti e tamburelli, conducevano le offerte delle primizie al cospetto delle divinità, riti in cui, secondo le stesse testimonianze scritte, anche i bambini primogeniti potevano essere oggetto di questo rituale, restituiti nelle braccia del dio attraverso i passaggi di purificazione nel fuoco.
I riflessi sulle acque dello stagnone alla notte regalano una sfera di forte romanticismo e di incondizionato misticismo, in cui le linee della costa prospiciente sono disegnate delle luci cittadine, con in lontananza l’illuminato cappello della pittoresca Erice, guardiano a controllo del territorio sottostante.
Bello, nelle mattine di fine agosto, sentire gli inni dei vendemmiatori che, sparsi tra i filari di Grillo, lavorano incessantemente per raccogliere i verdognoli grappoli utili a produrre il buon vino isolano, parte delle cantine etichettate Conte Tasca D’Almerita.
Rimangono negli occhi le seducenti linee del “Giovane di Mozia” e i variopinti colori delle saline scosse dallo scirocco; rimangono sulla pelle l’intensità del sole nelle calde giornate estive e le dolci brezze salmastre che lasciano sulle labbra il sapore del mare; rimangono nel cuore la calda accoglienza dei locali e l’accattivante sensazione di essere immersi in uno spazio senza tempo.
Giovane di Mozia “copyright Missione archeologica a Mozia, Sapienza Università di Roma”
Mozia è l’immagine stessa di un paradiso terrestre, una piccola perla del Mediterraneo che sa regalare forti emozioni, una terra in cui si respira una storia che ha il sapore di antichità, uno spazio dove i misteri legati al “fantasma del Cappiddazzu” sanno ancora colorare le storie decantate dai custodi e dai pescatori locali, facendo restare tutti sull’attenti attorno ai caldi falò.
L’isola di Mothia è il riflesso di una ricostruzione del passato che ha la capacità di penetrare nel cuore dei suoi visitatori per restarci aggrappata, un luogo fortemente legato alle sue radici e alle sue tradizioni.