Come racchiudere 45 anni di carriera in una sola intervista? Una sfida avvincente, tanto più se il protagonista ha corso con tenacia e intraprendenza negli anni più belli della grande orologeria. Ci sarebbe da scriverne un libro, dedicato non solo all’industria del tempo, ma all’essenza della vita. Perché la case history del dottor Beppe Ambrosini, Direttore Generale di IWC e delegato italiano della Fondation de la Haute Horlogerie, racconta molto di più del business e del successo. Tanto che con esperienza, know-how e una eccezionale dose di simpatia e naturalezza, che l’hanno reso il Beppe dell’orologeria italiana, lui ama definirsi “l’ultimo dei Mohicani”. Una piccola preziosissima stirpe in cui annovera il suo grande mentore, cresciuta sul rispetto umano e sulla dedizione al lavoro. Valori che dovrebbero diventare materia di studio nelle scuole per permettere ai giovani di costruire il proprio futuro senza dimenticare il sale della vita.

Beppe Ambrosini ritratto da Fredi Marcarini per Piaget
Quest’anno hai compiuto 45 anni di carriera nell’industria orologiera di alta gamma. Dove e come hai iniziato?
Sono sempre stato appassionato di motori e di orologi. Nei primi anni del 1900 la mia famiglia si trasferì dal Lago Maggiore a Bari, dove mio nonno aprì una fabbrica di ombrelli che serviva tutto il centro e il sud Italia oltre che l’Albania e la Grecia.
Agli inizi cominciai nel settore familiare, ma Bari per me era una città troppo piccola e dopo aver conosciuto la persona che è diventata mia moglie, il cui padre era nel settore degli orologi, conobbi il signor Sutti, distributore del marchio Girard-Perregaux. Quindi nel settembre del 1976 mi trasferii a Milano e divenni rappresentante della marca in Piemonte e Liguria. Durante l’era del famoso Laureato, un orologio molto amato dal nostro mercato, lavorai come responsabile commerciale Italia. Fu poi un grande amico, Gino Macaluso, nel 1983 a chiedermi di entrare in Breitling di cui aveva preso la distribuzione in Italia. Lavorammo tanto sul prodotto e in 3-4 anni diventò di gran moda, si vendeva a vagonate.
Fu poi la volta di Camille Fournet, anche quella fu un’avventura strepitosa…
Durante il Salone di Basilea del 1987 le sorelle Grazia e Mariastella Pisa mi presentarono Albert Bouquet che aveva appena acquisito un’azienda di cinturini per orologi. Mi propose di entrare in società e di trasferirmi a Parigi. Mi buttai a capofitto in quella nuova avventura e il mondo dell’orologeria, da cui provenivo, mi dimostrò grande seguito. Credo che derivasse dal mio approccio al lavoro, dal mio modus operandi. In tutta la vita ho sempre creduto che ci fosse spazio per tutti, non consideravo i colleghi come concorrenti, ma come persone con le quale costruire anche un’amicizia. Questi amici dell’industria orologiera fecero da interlocutori con le loro case madri e Camille Fournet diventò la marca di riferimento dei grandi player come Cartier, Blancpain del gruppo Swatch, Piaget e addirittura Patek Philippe. Da piccola azienda si trasformò in una realtà con due stabilimenti produttivi, 250 dipendenti e quattro filiali a Parigi, Milano, Tokio e La Chaux-de-Fonds.
Due foto scattate durante le edizioni del progetto Laureus. Nella prima Beppe Ambrosini con Rudy Zerbi e Alessandro Del Piero. Nella seconda con Marvin Hagler
Cosa vi diversificava dai competitor dell’epoca?
Insieme ad Albert ci inventammo i primi cinturini colorati. Una cosa assolutamente inedita. Proponevamo una palette di 60 differenti colori, abbinando tutta una serie di materiali innovativi, alternativi ed ecologici (allora non si parlava ancora di sostenibilità). Erano presentati in eleganti couvettes di pelle, come i segnatempo. Creammo un vero e proprio marchio in cui i cinturini e il packaging per gli orologi erano cuciti a mano dalle nostre laboriose artigiane che lavoravano negli stabilimenti produttivi. Nel 1995 Albert e il nostro terzo socio decisero di vendere e quindi, sebbene a malincuore, anche io liquidai le mie quote.

Il dottor Franco Cologni e il dottor Beppe Ambrosini in Grecia nel 1997
A quel punto tornasti a Milano?
Il primo cliente di Camille Fournet era il gruppo Vendome, fu il dottor Franco Cologni con cui ero diventato grande amico, a propormi di entrare in Piaget, come amministratore delegato di Piaget Italia e direttore generale. Rimasi con il gruppo fino al 2000 quando fui chiamato da Severin Wunderman che dopo la vendita di Gucci aveva acquistato Corum. Come direttore internazionale ripresi a fare avanti indietro con Parigi e la Svizzera. Era il periodo dell’orologio Bubble, una vera scommessa, che destava molto stupore con il suo vetro a cupola. E poi le serie speciali, il Jolly Roger, il primo segnatempo con un teschio sul quadrante. Quando presentai il disegno a Wunderman rimase a bocca aperta, come tutti i miei colleghi. Usai le ossa come lancette, creai il retro con il pirata e gli spadoni, l’astuccio evocava un forziere, la garanzia era una pergamena. Alla morte improvvisa di Wunderman nel 2008 decisi di fare un passo indietro, perché ritenevo che la dirigenza non fosse all’altezza.
Attesi 15 mesi prima di tornare operativo, il momento non era facile per l’economia e il telefono si fece silenzioso.
Per un uomo così dedito al suo lavoro, deve essere stato difficile quel momento!
Non mi persi d’animo, sapevo di aver costruito tanto e di aver anche anticipato in qualche modo alcuni grandi temi dell’orologeria. Ho sempre cercato di vedere un po’ più in là del mio naso, di sentire i cambiamenti, le tendenze. Bisogna adeguarsi ai tempi, essere sempre pronti ai trasformazioni; è importante cavalcare l’onda anche se pensiamo che sia un’onda corta. Prima o poi ne arriverà un’altra. Bisogna mettersi in ascolto, nella condizione di imparare, anche dall’estero.

Beppe Ambrosini nella boutique milanese di IWC Schaffhausen in via Montenapoleone 1
Arrivò alla fine la tanto attesa telefonata?
Si, nel maggio 2010 il telefono tornò a squillare: era il dottor Cologni che mi invitata a rientrare in Richemont. Presi la direzione di Baume et Mercier e poi nel 2013 arrivò anche IWC, marchi entrambi diretti dal CEO George Kern con il quale siamo diventati grandi amici.

L’evento Spitfire Club di IWC Schaffhausen organizzato nel 2019 per celebrare il progetto “Silver Spitfire – The Longest Flight”. Presenti i friends of the brand: Pierfrancesco Favino, Chef Andrea Berton, Serena Autieri, Albertino e Rudy Zerbi.
Con IWC Schaffhausen hai vissuto un grande periodo storico: i 150 anni del marchio, l’inaugurazione della nuova Manifattura, il giro del mondo dello Spitfire e tante partnership di successo. Hai preso spunto anche dalle tue passioni?
Con IWC, sia a livello internazionale che italiano, abbiamo realizzato partnership pazzesche in cui abbiamo abbinato due mondi convergenti: i motori e gli orologi. Storicamente è sempre stato un connubio perfetto nella condivisione di una filosofia molto simile e vincente. Due universi a cui sono legato fin dall’adolescenza. Qui da noi, IWC Schaffhausen è stato sponsor della coppa più antica d’Italia, la Milano Sanremo. Nonostante la pandemia, anche quest’anno abbiamo corso e l’edizione 2021 è stata un grande successo.
La nota dolente della pandemia ha portato cambiamenti nell’industria del tempo?
Questa pandemia ha accelerato i tempi, ha bruciato le tappe di 5 anni. È un cambiamento epocale che lascerà il proprio segno. Non si tornerà più come prima. La distribuzione cambierà sicuramente. L’e-commerce può essere utile, ma è una scelta che potrebbe danneggiare parte della filiera. Non avrei mai pensato che si potesse riuscire a vendere un prodotto attraverso un incontro virtuale, ma è quello che sta avvenendo! Quindi il mio consiglio a tanti negozianti è di adeguarsi e mettersi in condizione di fare queste vendite a distanza. È finito il tempo in cui alzavi la claire e aspettavi che entrasse in boutique il cliente, chi non lo capisce perderà una buona opportunità per mettersi al passo con il futuro. Ma tutto questo non cancellerà mai l’importanza del rapporto umano che deve essere sempre prioritario per mano alla tecnologia.

Per quanto riguarda il mercato italiano, siamo ancora trend setter come in passato?
Purtroppo no. Abbiamo perso lo scettro anche per questione di numeri, non possiamo paragonarci al mercato cinese. Noi italiani abbiamo un gusto che ha una tradizione di 200 anni; questo non potrà mai togliercelo nessuno, ma non siamo più ascoltati come prima. Ovviamente un marchio che non ha una vetrina in una città internazionale come Milano fa un grave errore, perché Milano detta legge. Dobbiamo continuare a portare avanti il nostro stile, anche se sarà in maniera digitale.
Cosa sta succedendo oggi nel mondo dell’orologeria, c’è una certa corsa all’acquisto?
È un settore in cui si muovono circa mille marchi, ma soltanto dieci a mio avviso sono quelli che detengono lo scettro. I primi tre, inutile nasconderci, Rolex, Patek Philippe e Audemars Piguet, sono ormai un must per eccellenza e sono marche indipendenti. Rolex produce un milione di pezzi l’anno che vanno a ruba, non fanno tempo ad arrivare nei concessionari che spariscono. Da anni per alcuni modelli c’è la lista d’attesa e questo li premia. È una rotta che non è mai cambiata, sono sempre stati fedeli a sé stessi sia nei modelli che nella distribuzione e nella comunicazione.
Poi ci sono i marchi sicuri e storici come Omega, Cartier, IWC, Jaeger-LeCoultre, Blancpain, Breguet. E non da ultimo quelli più innovativi che in pochi anni sono saliti alla ribalta per avanguardia nel design e nella tecnica meccanica, come Richard Mille. Vedrai che ci saranno nuove storie, nuove realtà in futuro che varrà la pena di tenere in considerazione.

Pierfrancesco Favino, fedele appassionato di IWC, grande estimatore dei Pilot’s Watches ed Ambassador del marchio da diversi anni.
Qual è l’approccio delle nuove generazioni all’orologeria di alta gamma?
In questi ultimi anni c’è stato un avvicinamento. In passato quando tenevo i corsi alle nuove leve percepivo poco interesse. I giovani hanno capito che se vogliono un orologio serio devono fare riferimento a un movimento meccanico e in questo anche il mondo digitale, i canali social, YouTube hanno aiutato. In più esiste anche la componente dell’investimento, se ti appassioni e approfondisci sei anche in grado di rivendere e guadagnare.
In 45 anni di carriera ti sei appassionato al collezionismo?
Nel settore si dice: vendi e pentiti! Ho comprato tanto, ma ho anche venduto tanto. Stessa cosa con le automobili, un’altra delle mie passioni. Ho sempre acquistato per il piacere di acquistare, non con l’idea di fare un investimento. Se così fosse stato, dovrei avere nel cassetto tanti Paul Newman! Non mi sono mai troppo legato a un oggetto: era una entità che mi aveva procurato soddisfazione in un momento, ma la ricerca poi continuava. In passato si andava per mercatini, dai pochi di cui ci si fidava, bisognava stare attenti.
Il prossimo settembre andrai in pensione. Conoscendoti bene, come uno dei più dinamici direttori dell’industria dell’orologeria, non ti metterai a giocare a golf!
Ho 67 anni, uscirò dal gruppo Richemont, ma penso di rimettermi ancora in pista! Metterò il mio know-how a disposizione di altre aziende. Sono convinto che le cose finiscano quando tu vuoi farle finire. Io non sono ancora pronto per deporre le armi, sono sempre stato un combattivo. Mi piace definirmi l’ultimo dei Mohicani!
Nella gallery il Direttore Generale di IWC Schaffhausen con Alessandro del Piero, Filippa Lagerbäck, Alessia Marcuzzi, Serena Autieri, Pierfrancesco Favino e Rudy Zerbi
Il Beppe combattivo è anche il Beppe molto amato, non solo nell’industria del tempo. Da Pierfrancesco Favino, ad Alessia Marcuzzi, Andrea Berton, Rudy Zerbi, Alessio Boni, sono tanti quelli con i quali hai saputo creare un vero rapporto di amicizia!
Non sai quanti mi chiamano a distanza di 30 anni per farmi gli auguri al compleanno. Son riuscito a lasciare un segno positivo, pur restando sempre me stesso. Mio padre mi diceva: “Chi nasce tondo non muore quadrato”. Crescendo ho imparato quanto fosse vero e la frase è sempre stata un mantra che mi ha accompagnato tutta la vita. Non si può cambiare gli altri, si può trovare una strada su cui camminare insieme, rispettando ognuno il lavoro e il valore dell’altro.
Quindi rifaresti tutto da capo?
Modificherei poco, forse nulla. Sono soddisfatto. Certo è capitato di essermi scontrato con qualcuno per far valere il mio pensiero, ma porterò via con me i ricordi più belli di tutte queste mie avventure. Per esempio con Gino Macaluso, un grande uomo, un vero personaggio, eravamo due caratteri forti, c’era lo scontro, ma sempre con rispetto.

Il dottor Franco Cologni e il dottor Ambrosini insieme a Milano nel 2018
Qual è stato uno degli incontri più importanti della tua vita?
Quello con il dottor Franco Cologni. Non avrei mai pensato di poter lavorare con lui. Mi è sempre stato vicino, fin dagli inizi quando ero suo fornitore per Camille Fournet e lui era il deus ex machina del gruppo Vendome. L’amicizia è rimasta forte e costante anche dopo, quando eravamo in Richemont; è stata una lotta dargli del tu, chiamarlo semplicemente Franco, perché per me lui sarà sempre “il dottore”. Ci sentiamo tre volte a settimana. È un uomo d’altri tempi, non ce ne sono più di persone così, ha dato la vita per il suo lavoro. Anche lui appartiene alla stirpe dell’ultimo dei Mohicani! È fondamentale che un gruppo ricordi e rispetti il valore umano. Quando non succederà più, avremmo tutti perso e saremo in mano ai robot. Uscendo dal gruppo porterò con me la memoria dei momenti più belli e un credo che non mi ha mai abbandonato: il rispetto dell’essenza umana. È identica all’essenza del profumo, in una piccola goccia viene fuori tutta la magia!

Per tutte le foto di questa intervista: courtesy Istangram @ Beppe Ambrosini